Executive Search 2020 & the New Leadership

A cura di Fabio Sola, Direttore PRAXI Alliance Worldwide Executive Search.

Il network PRAXI Alliance ha chiuso il 2019 ospitando per la prima volta a Roma il proprio Summit e discutendo con partner di oltre venti paesi del mondo di leadership in azienda nella nuova decade. In un'interessante discussione con alcuni clienti, si è posta l’attenzione sul modo in cui i player dell’executive search possano contribuire allo sviluppo della loro classe dirigente e al successo nel business globale.
 
Il primo “take away” della discussione è la sempre maggiore prevalenza delle competenze trasversali rispetto al background: in uno scenario in continua evoluzione (anche all’interno di business consolidato ciò che era vero solo ieri non vale più oggi), la “semplice” provenienza da contesti simili non garantisce la performance futura. Le soft skills si dimostrano vincenti e il manager di successo è sempre più spesso “non corrispondente” al profilo ideale che era stato disegnato.
Il contributo di una executive search firm a tale scopo è duplice: non solo supportare i propri clienti con servizi ad hoc di leadership consulting (executive assessment, onboarding, ecc.) ma anche orientare le tradizionali attività di ricerca verso outsider rispetto al settore dell’azienda, comporre in modo creativo le proprie short list ed aiutare le aziende ad interpretare tali opportunità.
Ovviamente in tutto questo è necessaria una capacità di lettura del business ben al di là del tradizionale patrimonio dell’headhunter (network e capacità di assessment), che consenta di individuare nel candidato executive la capacità di perseguire gli obiettivi aziendali.
 
La sorpresa più interessante da parte del client panel è il punto di vista sui fondi di private equity. Qui per definizione l’orizzonte temporale è più breve, visto che un ciclo di 2-5 anni non consente certo una fase di apprendistato al management team. Il tema della leadership resta però centrale e mette in evidenza la difficoltà estrema che questo mondo ha nell’individuare i CEO per i propri investimenti.
Anche in questo caso il modello tradizionale (un mix tra “il manager dell’azienda competitor”, completamente “plug & play”, e il “manager ben conosciuto” già testato in sfide simili) è entrato in crisi per l’accresciuta complessità del contesto.
Il processo di cooptazione di manager che hanno avuto successo in passato (talvolta definito “I know the guy”), senza troppi quesiti sull’adeguatezza allo specifico progetto, crea sempre più casi di rigetto. Per contrastare questo fenomeno – che fa spesso perdere i primi 12 mesi – è sempre più frequente l’affiancamento di un soggetto specializzato: sia nella creazione di un pool di manager più mirato rispetto all’esigenza (se non altro per pescare in un network più ampio e per avvalersi di una valutazione professionale) che nell’utilizzo di servizi di executive assessment come “second opinion”.
 
Il quesito fondamentale sulle caratteristiche del leader “degli anni Venti” mette infine in luce la fiducia come elemento centrale, quella di cui il manager deve godere in virtù dei propri comportamenti, ma soprattutto quella che deve dare ai propri team.
Le organizzazioni sono sempre più globalizzate e il lavoro a distanza è una costante: il modo di gestire team è completamente diverso, la sintonia e il commitment non si basano più su una quotidianità comune ma su valori condivisi e interscambi rapidi e spesso mediati dalla tecnologia. Le aziende sono inoltre ricche di persone diverse tra loro (nazionalità, cultura, generazione), che non ci consentono di applicare i consolidati criteri di giudizio (ciò che vale per un cinquantenne italiano è probabilmente molto diverso da quanto è importante per un venticinquenne asiatico). Ovviamente ciò richiede al manager di fidarsi in un modo molto più ampio di quanto non avrebbe fatto in passato, ma anche di saper valutare rapidamente il modo in cui gli obiettivi vengono raggiunti e di ritarare costantemente la propria gestione.
Ma tutto questo è acuito dalla digital transformation e dal mondo 4.0. Il capo di una bottega artigiana era quasi sempre il più bravo nello svolgere ciascuna delle attività dei propri collaboratori, mentre il leader di una tradizionale industria non era nella stessa condizione ma era comunque in grado di comprendere bene tutto il business (dalla produzione, alla vendita, all’amministrazione). Con la quarta rivoluzione industriale tutto cambia: il CEO non solo “non conosce” ma molto spesso “non capisce” l’intelligenza artificiale, la blockchain o semplicemente i social network. Deve invece fidarsi di persone che molto spesso sono diverse rispetto ai tradizionali criteri (era molto più semplice “affidarsi” ad un laureato del MIT con 20 anni di esperienza che non ad uno “smanettone in felpa”!).
 
La sintesi è che il mondo della consulenza ha una nuova missione, che va ben oltre l’individuazione di manager 4.0 (in termini di competenze trasversali molto più che di sensibilità tecnologica). Deve essere il punto di contatto tra il business tradizionale (global corporation ma anche media azienda impreditoriale) e “nuovi ecosistemi professionali”, siano essi singoli manager e professional oppure start-up all’interno di processi di open innovation.